SAMYAMA

Samyama verso l’atman

Nei libri III, 4 degli ‘Yoga Sutra’,si legge: ‘trayamekatra samyamah’ , cioè: ‘la pratica dei tre -Dharana, Dhyana, Samadhi- su un unico oggetto è samyama’. Quindi tale termine, ‘samyama’, riferito agli Yoga Sutra di Patanjali, indica le ultime tre tappe del percorso dello yogin: Dharana, Dhyana e Samadhi. Queste tre ultime tappe non è possibile disgiungerle, visto che sono passaggi mentali dalla contemplazione di un oggetto alla fusione totale con esso, cioè dal vedere l’oggetto ‘fuori da sè’ al divenire l’oggetto stesso. Alcuni testi traducono samyama come la ‘disciplina perfetta’, altri come ‘comunione’ o ‘costrizione’. Patanjali sostiene che praticare samyana su un qualunque oggetto ci porta a conoscere l’oggetto per quello che è; se si pratica sui pensieri di una persona si può scoprire cosa pensa; esercitando samyama sulla forma del corpo, il corpo dello yogin diventa invisibile; esercitando samyama sulla forza degli animali allo yogin arriva tale forza, etc.( libro III, Yoga Sutra).Quindi per Patanjali, in un certo stadio del cammino dello yogin, la contemplazione, la meditazione e il Samadhi sono dei processi attivi di una mente che non si riconosce più con le percezioni dei cinque sensi, almeno come siamo abituati a conoscerli, e con i pensieri che la attraversano. Si potrebbe dire che lo yogin, che intraprende le ultime tre tappe, fa esperienza attingendo all’intelletto superiore, o Vijnanamayakosha – ‘involucro fatto di intelletto puro’. Parlando il linguaggio dello Yoga di Mère, ‘quando le porte dell’essere sono spalancate al Divino’, che implica un cambio radicale nelle aspirazioni del praticante rispetto a quando ha iniziato il percorso. Patanjali parla di un intelletto (sattva) reso, dalla pratica yoga, puro come il Purusha stesso, o ‘pura coscienza’ o ‘il Sè’ (Yoga Sutra, III, 55).

Il fine ultimo della pratica Yoga, il cui significato è ‘unione’, è quello di divenire un’ unica cosa con la pura coscienza, contemplando con ciò tale possibilità. Spesso lo Yoga è stato letto come una separazione dal mondo, un rifiuto della fisicità e della mente non ‘illuminata’, ma nella possibilità di divenire una coscienza pura come il Purusha, si sottintende una non-dualità tra ciò che è l’uomo e ciò che è il ‘divino’. Si tratterrebbe , attraverso la pratica costante (abhyasa) e la non identificazione con i pensieri e le sensazioni che ci attraversano (vairagya), di rendere pura la nostra coscienza, magari trasformando la nostra natura, come fa intendere Merè e lo Yoga Integrale di Aurobindo, la tradizione dei Siddhi,i saggi dell’Himalaya; il pensiero di Gurdjieff..e lo stesso Patanjali. Nel verso 2 del libro IV degli Yoga Sutra si legge : ‘jati-antara-parinamah prakrty-apurat‘ cioè: ‘la trasformazione in un’altra specie (grazie) alle grandi possibilità della Natura’.